La sicurezza urbana si pone al crocevia tra sicurezza pubblica e sicurezza sociale, nel continuo tentativo di raggiungere un equilibrio tra queste diverse componenti. La tendenza che si sta manifestando, tuttavia, è quella di privilegiare soprattutto la sicurezza pubblica, la quale finisce per ricomprendere al suo interno non solo l’ordine pubblico strettamente inteso, ma anche obiettivi come “vivibilità” e “decoro”, a scapito degli ulteriori aspetti ad essa complementari. La safety finisce così per essere ridotta alla security.
Da qui allora la necessità che le autorità locali attuino davvero una politica integrata sulla sicurezza urbana, dando origine a sforzi di programmazione che coinvolgano una pluralità di livelli territoriali di governo e che riescano a coniugare misure di sicurezza pubblica, di competenza statale, con interventi strategici nelle politiche urbanistiche, sociali, assistenziali, culturali, di ascolto, ecc. di loro competenza. In questo modo sarà davvero possibile affrontare alla radice quelle situazioni e quei fenomeni di “disagio” e “degrado” che altrimenti rimarrebbero senza risposta, o che tutt’al più verrebbero attenuati nei loro sintomi più evidenti. A questo proposito, non è detto che i confini dei singoli Comuni offrano la giusta scala per interventi di questo genere, ed è qui allora che l’area vasta può rappresentare una dimensione adeguata su cui parametrare la sicurezza urbana. Per venire incontro alle problematiche della sicurezza urbana, dunque, sembrerebbe rendersi necessario un ripensamento nella disciplina legislativa, ma anche uno sforzo strategico da parte degli attori protagonisti sul territorio nell’elaborare visioni e politiche innovative, in accordo proprio con lo scopo di progetti come quello di MediAree – Next Generation City.
Giuseppe Mobilio è ricercatore in Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Firenze. Tra le sue pubblicazioni recenti Le città metropolitane. Dimensione costituzionale e attuazione statutaria (Giappichelli, 2017) e il contributo Area vasta e Città metropolitana nella Costituzione, in W. Gasparri (a cura di), Alla ricerca dei modelli di governo dell’area vasta (Giappichelli, 2021).
La sicurezza urbana per le aree medie: una questione di cooperazione e programmazione
1. Considerazioni introduttive
La sicurezza urbana è un fenomeno da tempo all’attenzione degli studi sociologici e criminologici che si interrogano sul tema della qualità della vita nelle città. Questa dimensione della sicurezza non interessa soltanto gli episodi delinquenziali e di microcriminalità, ma anche le forme di devianza ed emarginazione, gli episodi di vandalismo e inciviltà, le situazioni di degrado e disagio (Curbet 2008). Si tratta di fenomeni cui è possibile offrire risposte profondamente differenti, dagli interventi che mirano a modificare il contesto urbano sino alle politiche di “tolleranza zero” verso i singoli episodi. Le politiche tradizionali di repressione e sanzione vengono così affiancate a nuove strategie integrate di prevenzione, volte a porre le condizioni urbanistico-ambientali, sociali e comunitarie per evitare il verificarsi di questo tipo di comportamenti o situazioni indesiderate (Selmini 2004).
Solo a partire dal 2008 la nozione di sicurezza urbana ha assunto una rilevanza giuridica a livello statale, nella misura in cui è stata inizialmente formalizzata con il primo “pacchetto sicurezza” (2008-2009), poi elaborata in termini più strutturali con il d.l. 20 febbraio 2017, n. 14. Vari elementi di questa nuova disciplina inducono a ritenere che la sicurezza urbana sia una questione di cooperazione tra istituzioni e tra enti pubblici e soggetti privati, di programmazione intersettoriale tra politiche differenti, ultimamente di governance dell’area vasta. Così intesa, anche la sicurezza urbana si pone in un’ottica promozionale rispetto ai diritti e al pieno sviluppo delle persone, come il quadro costituzionale vigente impone a qualsiasi dimensione della sicurezza (Ruotolo 2012; Pistorio 2021).
Tuttavia, a dispetto delle premesse, la prassi sembrerebbe dimostrare come le istituzioni tendano ad assimilare la sicurezza urbana ad una prospettiva di sicurezza pubblica e di ordine pubblico, secondo un’accezione in termini repressivi o conservativi. Questo fenomeno è spiegabile, sul piano giuridico, per una serie di ragioni sulle quali si proverà a fornire alcuni spunti. È bene fin da subito anticipare, però, come proprio il recupero di una attitudine alla cooperazione e alla programmazione potrebbe contribuire a recuperare la giusta prospettiva con cui impostare anche le politiche di sicurezza urbana.
2. Il riconoscimento giuridico di un concetto sfuggente
Con il d.l. n. 14/2017 ha preso forma il concetto di “sicurezza integrata”, inteso come «sistema unitario e integrato di sicurezza per il benessere delle comunità territoriali» che coinvolge tutti i livelli di governo nell’esercizio delle rispettive competenze (art. 1). In aggiunta, per la prima volta viene disciplinata anche la “sicurezza urbana” in senso stretto, intesa come «il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire anche attraverso interventi di riqualificazione, anche urbanistica, sociale e culturale, e recupero delle aree o dei siti degradati, l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, in particolare di tipo predatorio, la promozione della cultura del rispetto della legalità e l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile» (art. 4). Ai fini del presente discorso occorre mettere in luce alcuni aspetti di questa disciplina.
La nuova impostazione nelle politiche di sicurezza dipende, innanzitutto, dalla capacità di definire strategie di tipo integrato che coinvolgono una pluralità di livelli di governo; è un risultato, piuttosto che una azione (Cortese 2011).
Entro questo approccio integrato, inoltre, la sicurezza urbana chiama in causa competenze spettanti distintamente a Stato e autonomie territoriali: sicurezza pubblica in senso stretto, intesa come prevenzione e repressione dei reati (i.e. ordine pubblico), esercitata dalle autorità governative presenti sul territorio (in primis prefetti); ma anche polizia amministrativa e locale, urbanistica, sanità, istruzione, servizi sociali, attività culturali, ecc., che a seconda dei diversi ambiti riconoscono un protagonismo agli altri livelli territoriali di governo. Un crocevia di competenze e funzioni che tiene unito un complesso sistema di governance della sicurezza volto a garantire la vivibilità e il decoro delle città (Tatì 2017).
In questo modo, in aderenza con gli indirizzi espressi a livello di Nazioni Unite e Unione europea, si condensano soluzioni di tipo preventivo e di recupero riferite al contesto urbano, spettanti principalmente alle amministrazioni locali, con altre di tipo repressivo e reattivo rispetto ai fenomeni criminali, spettanti allo Stato, alle forze di polizia e al Sindaco in veste di ufficiale del Governo (Brocca 2020).
In definitiva, la sicurezza urbana è un ambito che si pone a metà strada tra safety, ovvero sicurezza in senso lato, se intesa come complessivo benessere della comunità e qualità della vita dei cittadini, e security, ovvero sicurezza in senso stretto, se riferita all’integrità psico-fisica dei singoli individui (Giupponi 2010a).
Dall’analisi di queste previsioni, tuttavia, emergono alcuni limiti e ambiguità. La sicurezza urbana viene definita facendo ricorso a termini alquanto generici, come il “decoro” o la “vivibilità”, che sembrano riferirsi a obiettivi politici ed aspirazioni di benessere – a detta di taluni, con venature “estetiche” e “soggettivo emozionali” – più che circoscrivere comportamenti giuridicamente rilevanti (Ruga Riva et al. 2017).
La sicurezza urbana, inoltre, non è tanto una nuova materia o funzione, quanto – come detto – l’esito di un processo (Vandelli 2008). Tale processo si basa sul coordinamento tra funzioni e attori diversi, il cui risultato effettivo non può essere stabilito a priori, poiché rimesso a dinamiche tra livelli di governo differenti e prassi dagli sviluppi incerti.
3. La forza “espansiva” della sicurezza pubblica
La sicurezza pubblica, intesa come perseguimento dell’ordine pubblico, costituisce quindi una componente essenziale della sicurezza urbana; ma non la sola. Allo stesso tempo, tuttavia, la sicurezza pubblica manifesta una “attitudine espansiva” che la spinge ad interferire con ambiti ulteriori rispetto a quelli dell’ordine pubblico in senso stretto.
Questa tendenza trova un riflesso anche nella giurisprudenza con cui la Corte costituzionale ha cercato di circoscrivere la competenza legislativa esclusiva statale in materia di “ordine pubblico e sicurezza” (art. 117, c. 2, lett. h, Cost.). In numerose sentenze della Corte, infatti, è possibile distinguere, da una parte, una sicurezza in senso stretto (o “primaria”) affidata alla competenza legislativa dello Stato e rientrante nelle attività di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza. Dall’altra, vi è una sicurezza in senso lato (o “secondaria”) da intendersi come «fascio di funzioni intrecciate, corrispondenti a plurime e diversificate competenze», nella quale le autonomie territoriali sono chiamate ad esercitare le proprie competenze e contribuire ad assicurare «le precondizioni per un più efficace esercizio delle classiche funzioni di ordine pubblico, per migliorare il contesto sociale e territoriale di riferimento, postulando l’intervento dello Stato in relazione a situazioni non altrimenti correggibili se non tramite l’esercizio dei tradizionali poteri coercitivi» (così ex multis C.cost., sentt. n. 176/2021, n. 177/2020, n. 285/2019, n. 208/2018, n. 300/2011).
Alla luce di questa macrodistinzione, in alcune pronunce la Corte ha propeso per una interpretazione restrittiva della materia all’art. 117, c. 2, lett. h, Cost., escludendovi aspetti non immediatamente accostabili all’ordine pubblico, come la sicurezza ambientale (sent. n. 407/2002), la sicurezza energetica o tecnica (sent. n. 6/2004), la sicurezza alimentare (sent. n. 95/2005), la sicurezza di edifici e strutture pubbliche (sent. n. 27/2019), ovvero la definizione delle distanze minime dai giochi leciti sent. n. 27/2019).
Viceversa, in altre pronunce la Corte ha ricondotto alla materia “sicurezza e ordine pubblico” profili come l’adozione delle misure relative alla prevenzione dei reati ed al mantenimento dell’ordine pubblico con riguardo alla disciplina della circolazione stradale (sent. n. 428/2004), la sicurezza dei trasporti (sent. n. 5/2019), la sicurezza dei passeggeri aeroportuali (sent. n. 51/2008), la sicurezza nei confronti degli animali pericolosi (sent. n. 222/2006), il gratuito patrocinio (sent. n. 172/2017), la tracciabilità dei flussi finanziari per il contrasto alla criminalità organizzata (sent. n. 35/2012). In alcune occasioni, inoltre, la Corte costituzionale ha addirittura fatto riferimento ad una “sicurezza” tout court, slegata dall’ordine pubblico e riferita ad una generica “tutela dell’incolumità delle persone”, anche a prescindere dalla funzione di prevenzione dei reati (sentt. n. 21/2010, n. 56/2019; sentt. n. 77/2013, n. 183/2012, n. 119/2019).
Da questa giurisprudenza si possono trarre indicazioni utili ai fini del discorso sulla sicurezza urbana. Per un verso, si assiste al tentativo di restringere il concetto di sicurezza pubblica all’ordine pubblico. Per l’altro, si cerca di esplicitare ulteriori aspetti, diversi e complementari alla sicurezza pubblica, come quelli che arricchiscono la sicurezza urbana. Tuttavia, la sicurezza pubblica manifesta una tendenza alla trasversalità che la rende capace di estendersi su ambiti o settori che risultano anche solo potenzialmente esposti a rischi. Di conseguenza, gli ambiti complementari di competenza delle autonomie territoriali, come quelli afferenti alla sicurezza urbana, risultano non solo difficilmente perimetrabili a priori, ma anche esposti alle incursioni da parte dello Stato, il quale può adottare una disciplina legislativa sulla sicurezza pubblica che va al di là dei confini dell’ordine pubblico strettamente inteso (Bonetti 2007; Giupponi 2010b; Sterpa 2021).
4. Gli strumenti a difesa della sicurezza urbana: uno sguardo alla prassi
Le ragioni di questa tendenza espansiva della sicurezza pubblica ai danni degli aspetti complementari della sicurezza urbana non sono imputabili solamente allo Stato. Le stesse autonomie territoriali si rendono responsabili di una lettura “securitaria” della sicurezza urbana.
Una chiara indicazione di questo fenomeno è riscontrabile se si guarda agli istituti che la riforma al d.l. n. 14/2017 impiega per precisare ulteriormente il significato di “sicurezza urbana” (Antonelli 2017), ovvero: i “patti per l’attuazione della sicurezza urbana” (artt. 5 e 7); le ordinanze sindacali ex artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267/2000 (testo unico degli enti locali – TUEL) (art. 8); il coinvolgimento di privati cittadini e delle loro associazioni nel perseguimento degli obiettivi di sicurezza urbana (art. 7).
La prassi maturata nel primo quinquennio dalla loro introduzione sembra confermare un appiattimento della sicurezza urbana sulla sicurezza pubblica, a scapito della valenza promozionale che la sicurezza urbana potrebbe assumere rispetto a situazioni e comportamenti tali da compromettere la “vivibilità” e il “decoro” del tessuto urbano.
4.1 Gli strumenti pattizi
Il d.l. n. 14/2017 valorizza un approccio pattizio alla sicurezza urbana. In particolare, gli attori più impegnati sul territorio, ovvero sindaci e prefetti, sono chiamati a stipulare i “patti per l’attuazione della sicurezza urbana”. I termini con cui questo strumento è stato normativamente configurato e l’uso che ne è stato fatto alimentano la citata tendenza alla confusione tra sicurezza urbana e sicurezza pubblica.
Nell’elencare espressamente gli obiettivi da perseguire, il d.l. n. 14/2017 parla innanzitutto di patti finalizzati alla «prevenzione e contrasto dei fenomeni di criminalità diffusa e predatoria». Si richiama così una componente tipica della sicurezza pubblica, specie nella misura in cui si intende favorire il coinvolgimento «delle forze di polizia per far fronte ad esigenze straordinarie di controllo del territorio». Per il raggiungimento di questo obiettivo, inoltre, la norma indica anche l’«installazione di sistemi di videosorveglianza». In questo caso, se si guarda ai decreti ministeriali cui viene demandata la definizione dei criteri e delle logiche di riparto delle risorse destinate ai Comuni, troviamo come indicatori per stabilire le priorità di finanziamento riferimenti all’indice di delittuosità provinciale e comunale, o all’incidenza dei fenomeni di criminalità diffusa registrati nell’area urbana da sottoporre a videosorveglianza (v. da ultimo i decreti interministeriali 9 ottobre 2021 e 27 maggio 2020).
Una lettura diversa si potrebbe invece dare all’obiettivo di «promozione del rispetto del decoro urbano»; se non che la norma richiama espressamente come strumento privilegiato per il suo raggiungimento la comminazione delle sanzioni amministrative pecuniarie e l’ordine di allontanamento (art. 9). Tali sanzioni vengono inoltre accompagnate, in caso di reiterata violazione, alla discussa misura di prevenzione del divieto di accesso ai luoghi interessati (c.d. DASPO urbano) (Cortesi 2018).
Analoga impressione viene offerta dall’obiettivo di «promozione e tutela della legalità», soprattutto se realizzato con il ricorso a iniziative preventive e dissuasive «di ogni forma di condotta illecita», richiamando espressamente l’occupazione arbitraria di immobili o il commercio abusive.
Meno improntati alla sicurezza pubblica sembrano invece gli obiettivi di «promozione dell’inclusione, della protezione e della solidarietà sociale», che ci si aspetterebbe venissero perseguiti tramite le competenze degli enti locali afferenti, ad esempio, a servizi sociali, attività culturali o housing sociale, entro la cornice unitaria offerta dai patti.
Se però si guarda ai patti concretamente formulati, compresi quelli dei Comuni coinvolti nel progetto MediAree, tra i contenuti privilegiati vi è la prevenzione e il contrasto dei fenomeni di criminalità diffusa e predatoria e la promozione del rispetto del decoro urbano, soprattutto tramite l’installazione di citati sistemi di videosorveglianza[1]. L’impressione, dunque, è che i “patti” offrano una cornice a politiche che guardano principalmente al momento repressivo/conservativo della sicurezza (urbana) piuttosto che a quello di recupero/promozionale del tessuto urbano.
4.2 I poteri di ordinanza sindacale
Come già accennato, il concetto di “sicurezza urbana” fa la sua comparsa nella normazione di rango primario grazie al c.d. “pacchetto sicurezza”, e in particolare con il d.l. n. 92/2008, il quale ha esteso la portata delle ordinanze sindacali disciplinate dal TUEL anche a questo ulteriore ambito. Il successivo d.m. 5 agosto 2008 ha quindi definito la sicurezza urbana come «bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale», tipizzando poi le fattispecie in una serie di situazioni e comportamenti da contrastare che a ben vedere, rientrano nell’ambito della sicurezza pubblica e sono già qualificate come illecite da altre norme, anche penali (Videtta 2016).
Successivamente è intervenuta la riforma del 2017. Secondo le novità introdotte, il Sindaco può oggi esercitare, nell’ambito e con l’obiettivo della sicurezza urbana, un potere straordinario di ordinanza attraverso due canali. Il primo, in veste di ufficiale di Governo, per le ipotesi riconducibili all’art. 54 del TUEL, commi 4 e 4-bis – quest’ultimo introdotto sostanzialmente per legificare i contenuti del citato d.m. 5 agosto 2008, dunque sempre nella sfera della sicurezza pubblica – e comma 6, il quale accorda la possibilità di modificare gli orari di apertura di esercizi commerciali e uffici pubblici. Il secondo, invece, quale rappresentante della comunità locale, per ipotesi estranee alla sicurezza pubblica e dirette a superare «situazioni di grave incuria o degrado» o «di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana» (art. 50, c. 5 TUEL). A questi due si aggiunge un terzo canale “ordinario” di ordinanza (art. 50, c. 7-bis del TUEL), sempre in veste di esponente della comunità locale, con cui disporre limitazioni in materia di orari di vendita e di somministrazione di alcolici per un periodo non superiore a trenta giorni.
Da un potere di ordinanza originariamente configurato come attiguo alla sicurezza pubblica, si passa ad un potere di ordinanza legato ad una concezione di sicurezza urbana più ampia, che la normativa tratteggia però con linguaggio piuttosto generico. Di conseguenza, da un lato si offre ampi spazi di azione ai Sindaci, ma dall’altro non si definisce in maniera sufficientemente stringente la logica sottostante a queste forme di interventi, aprendo alla possibilità che la sicurezza urbana subisca una interpretazione riduttiva.
Se infatti si guarda alle ordinanze adottate in base all’art. 50 del TUEL, che quindi non dovrebbero ricadere nella sicurezza pubblica, si può osservare innanzitutto come esse abbiano ricevuto un impiego piuttosto limitato, essendo la maggior parte di esse rivolte alle due fattispecie già citate riguardanti gli orari degli esercizi commerciali e la somministrazione di alcolici, come rimedio privilegiato per tutelare la quiete pubblica, oppure a restrizioni alla viabilità o all’accesso di specifiche aree urbane in relazione a specifici eventi (come concerti o manifestazioni). Si tratta però di una interpretazione piuttosto riduttiva del concetto di sicurezza urbana, che invece dovrebbe estendersi fino a ricomprendere – come recita la norma – «interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana».
Più di recente, invece, l’emergenza sanitaria ha segnato un’espansione del potere di ordinanza sindacale. È indicativo però le ordinanze adottate per fronteggiare la pandemia, in molti casi, contengano un riferimento non soltanto alla «emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale» di cui all’art. 50, c. 5 TUEL, ma anche alla incolumità pubblica di cui all’art. 54 TUEL.
In sostanza, viene fatto un uso piuttosto limitato delle ordinanze sindacali per il perseguimento della sicurezza urbana, con il quale, il più delle volte, è difficile distinguere nettamente obiettivi diversi da quelli della sicurezza pubblica. Questa difficoltà si spiega anche alla luce della natura dello strumento. Le ordinanze sindacali, infatti, servono a svolgere interventi emergenziali per affrontare situazioni puntuali; sono quindi strumenti che – a dispetto della lettera dell’art. 54, c. 4-bis TUEL – non si dimostrano idonei a perseguire finalità come la “prevenzione” di “fenomeni” di illegalità, o per il contrasto a fenomeni che hanno origini sociali radicate nel tempo e nel tessuto urbano. Queste ultime sono situazioni che non richiedono provvedimenti estemporanei, bensì politiche pubbliche in una prospettiva integrata e di lungo periodo.
4.3 La sicurezza “partecipata”
Una ulteriore approccio valorizzato dalla riforma del 2017 per perseguire la sicurezza urbana si basa sul coinvolgimento attivo dei cittadini e delle loro forme aggregative.
Questa apertura verso nuove modalità di esercizio dei poteri pubblici si inserisce nel più ampio fenomeno della “sicurezza partecipata”, in cui i cittadini singoli o associati concorrono in maniera non professionale alla co-produzione di sicurezza (Pajno, Antonelli 2010).
Anche sotto questo profilo, per cogliere la portata della più recente disciplina sulla sicurezza urbana è necessario guardare indietro alle misure adottate nel 2009. È in questo frangente che si colloca anche l’istituzionalizzazione delle c.d. ronde, ovvero forme di collaborazione tra sindaco e «associazioni di cittadini non armati» impegnati nel segnalare «eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale» (art. 3, c. 40 della legge n. 94/2009). Benché i cittadini debbano limitarsi ad “osservare” e “segnalare” alle forze dell’ordine, fin da subito sono state evidenziate le incertezze interpretative circa il rapporto tra il coinvolgimento delle “ronde” nel perseguimento della sicurezza urbana e la tradizionale funzione di sicurezza pubblica (Tropea 2010).
Il d.l. n. 14/2017 non tocca la disciplina del 2009 sulle associazioni di osservatori volontari, cui i sindaci potranno continuare a fare ricorso, ma vi affianca ulteriori forme di collaborazione con i privati.
Le principali novità si ritrovano nei già citati “patti per l’attuazione della sicurezza urbana”, con i quali è possibile coinvolgere, mediante appositi accordi, le «reti territoriali di volontari per la tutela e la salvaguardia dell’arredo urbano, delle aree verdi e dei parchi cittadini. Queste forme di collaborazione, tuttavia, sono attivabili per la finalità di «prevenire e contrastare i fenomeni di criminalità diffusa e predatoria»; ovvero una finalità – come già detto – contigua alla sicurezza pubblica. Grazie agli stessi “patti”, tuttavia, è possibile avviare forme di collaborazione per la «promozione dell’inclusione, della protezione e della solidarietà sociale mediante azioni e progetti per l’eliminazione di fattori di marginalità, anche valorizzando la collaborazione con enti o associazioni operanti nel privato sociale». Una finalità, quest’ultima, che sembra invece maggiormente in linea con gli interventi rientranti nella sicurezza “secondaria”.
Se però si guarda ai “patti” fin qui adottati dai Comuni coinvolti nel Progetto, è possibile notare come siano piuttosto esigui i riferimenti a queste forme di collaborazione. Piuttosto, è molto più frequente che queste realtà comunali facciano ricorso al c.d. “controllo di vicinato”, ovvero a quelle forme di partecipazione attiva dei cittadini, basata però sulla mera osservazione di prossimità e sulla prevenzione passiva e “statica” (Antonelli 2018). Nei fatti, tuttavia, il confine tra i due fenomeni rischia di essere molto labile, anche in considerazione della diffusione di strumenti tecnologici capaci di aumentare esponenzialmente il potere di sorveglianza reciproca dei cittadini (Mobilio 2021).
Sul piano strettamente giuridico, vi sono pratiche di “controllo di vicinato” che avvengono in maniera informale da parte di associazioni di volontari[2]. Ma vi sono anche altre che invece sono state formalizzate con modalità diverse dai citati “patti”, ovvero sulla base di protocolli tra prefetture e amministrazioni locali[3]. È indicativo, però, che queste ultime prendono parte a questi accordi spendendo le funzioni del sindaco ex art. 54, c. 1, lett. c TUEL, ovvero la «vigilanza su tutto quanto possa interessare la sicurezza e l’ordine pubblico».
A livello pratico, inoltre, il “controllo di vicinato” e le “ronde” rischiano di assomigliare molto tra di loro, concretizzandosi in una generica attività di controllo del territorio che solleva le medesime problematiche. Lo scopo di entrambe queste forme di “sicurezza partecipata”, infatti, non è la rimozione delle cause di insicurezza o la soluzione dei conflitti sociali, ma la mera “denuncia”, così che si paventa il rischio di scivolare – anche qui – verso una lettura “repressiva” degli strumenti di sicurezza urbana.
Entrambe le attività si muovono sul sottile crinale tra osservazione/rilevazione, cui dovrebbero limitarsi, ed accertamento del reato, riservato invece alle forze di polizia. Questa incertezza e confusione di ruoli è suscettibile di sfociare in abusi, nella misura in cui, ad esempio, viene rimesso ai privati un ampio margine di scelta circa i luoghi, i modi, i tempi del controllo, quando non la scelta degli stessi soggetti controllati, sulla base di ragioni ideologiche o altri tipi di interessi (Massa 2009). Con il risultato, neanche troppo ipotetico, di contribuire ad aumentare la marginalizzazione di gruppi già percepiti come “indesiderabili”.
5. Spunti conclusivi
La complessità della sicurezza urbana, per come indagata dagli studi sociologici, è stata tradotta sul piano giuridico in un sistema dove si intrecciano competenze differenti spettanti a molteplici livelli di governo, che insieme concorrono all’obiettivo di garantire la “sicurezza” in senso ampio. La sicurezza urbana, inoltre, offre un terreno privilegiato per inverare quell’accezione promozionale con cui la Costituzione guarda più in generale al tema della sicurezza. In questo modo, la sicurezza urbana si pone al crocevia tra sicurezza pubblica e sicurezza sociale, nel continuo tentativo di raggiungere un equilibrio tra queste diverse componenti.
La tendenza che si sta manifestando, tuttavia, è quella di privilegiare soprattutto la sicurezza pubblica, la quale finisce per ricomprendere al suo interno non solo l’ordine pubblico strettamente inteso, ma anche obiettivi come “vivibilità” e “decoro”, a scapito degli ulteriori aspetti ad essa complementari. La safety finisce così per essere ridotta alla security.
Le ragioni dietro a questo fenomeno risiedono – come visto – sia nelle ambiguità con cui la disciplina statale della sicurezza urbana è stata formulata, sia nell’effettivo uso che viene fatto delle attribuzioni da parte degli attori coinvolti sul territorio.
Da una parte, questa tendenza espansiva della sicurezza pubblica rischia di portare ad offrire risposte a problemi socio-economici secondo logiche prettamente sanzionatorie e repressive. Le politiche di prevenzione, che dovrebbero guardare a fattori urbanistico-ambientali, sociali e comunitari, vengono così ricondotte ad una matrice “securitaria”.
Dall’altra, formule come “decoro” o “vivibilità” assumono una carica ideale che può fornire un alibi per limitare genericamente libertà e diritti fondamentali delle persone secondo logiche estranee alle previsioni costituzionali. Con il rischio ulteriore di generare fenomeni di discriminazione nei confronti di gruppi o categorie di persone a dispetto delle ragioni dello Stato sociale e del principio di eguaglianza sostanziale.
Da qui allora la necessità che le autorità locali attuino davvero una politica integrata sulla sicurezza urbana, dando origine a sforzi di programmazione che coinvolgano una pluralità di livelli territoriali di governo e che riescano a coniugare misure di sicurezza pubblica, di competenza statale, con interventi strategici nelle politiche urbanistiche, sociali, assistenziali, culturali, di ascolto, ecc. di loro competenza. In questo modo sarà davvero possibile affrontare alla radice quelle situazioni e quei fenomeni di “disagio” e “degrado” che altrimenti rimarrebbero senza risposta, o che tutt’al più verrebbero attenuati nei loro sintomi più evidenti. A questo proposito, non è detto che i confini dei singoli Comuni offrano la giusta scala per interventi di questo genere, ed è qui allora che l’area vasta può rappresentare una dimensione adeguata su cui parametrare la sicurezza urbana.
Per venire incontro alle problematiche della sicurezza urbana, dunque, sembrerebbe rendersi necessario un ripensamento nella disciplina legislativa, ma anche uno sforzo strategico da parte degli attori protagonisti sul territorio nell’elaborare visioni e politiche innovative, in accordo proprio con lo scopo di progetti come quello di MediAree – Next Generation City.
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[1] Si veda il Patto per l’attuazione della sicurezza urbana di Pordenone (7 giugno 2018); il Patto per Treviso sicura (modificato il 29 settembre 2020); il Patto per l’attuazione della sicurezza urbana di Rimini (21 ottobre 2020); il Patto per l’attuazione della sicurezza urbana firmato dai Comuni del senese (8 luglio 2019); il Patto per l’attuazione della sicurezza urbana di Latina (28 giugno 2018); il Patto per la sicurezza firmato dai Comuni nella Provincia di Campobasso (18 maggio 2018); il Patto per l’attuazione della sicurezza urbana di Avellino (5 ottobre 2018).
[2] È quanto accade nel caso di Treviso, capofila dei Comuni della Marca (2019); di Rimini (2019); o di Campobasso (2020).
[3] È il caso del Protocollo con la Prefettura – Unione Bassa Reggiana (2018); Protocollo con la Prefettura – Unione Rubicone e Mare (2018); il protocollo che coinvolge Latina (20 novembre 2018); o Avellino (11 febbraio 2019).