Innovazione, reti di cooperazione tra città, crescita di funzioni di alto livello, modernizzazione di funzioni presenti e loro sviluppo nel sistema di Area vasta, sono gli elementi che determinano l’aumento di efficienza e attrattività nelle Città Medie, utilizzando ma anche sfidando il nuovo paradigma tecnologico – della conoscenza, della cultura, della creatività e della digitalizzazione – che avvantaggia in particolare le città più grandi e internazionalizzate.
Un aumento della dimensione urbana non implica necessariamente un aumento di produttività, né una maggiore produttività implica automaticamente un aumento di attrattività poiché vanno considerati i benefici netti urbani, scontati cioè dei maggiori costi delle grandi città: rendite immobiliari, costo della vita e costi ambientali.
Le Città Medie hanno naturalmente più difficoltà a sviluppare funzioni di grado e complessità elevate, e certamente non possono ospitarle tutte, come fanno le grandi città mondiali. Ma hanno tre strategie a disposizione: svilupparne solo una o alcune, coerenti con le loro specificità e le identità storiche; integrarsi strettamente, soprattutto in termini di accessibilità e di competenze nell’uso di queste funzioni, all’interno di una grande area metropolitana, “prendendo a prestito” dimensione metropolitana e funzioni dalla città maggiore (i concetti di “borrowed size” e “borrowed function” che spiegano gli elevati rendimenti delle città medie se sono integrate in tali contesti vasti); infine simili performance e vantaggi competitivi possono essere raggiunti attraverso la cooperazione, selettiva ed efficiente, con città distanti o estere, con specializzazioni simili o complementari (le cosiddette “reti di città”).
L’autore propone una visione che lui stesso definisce “istituzionalista” ed “evolutiva” per la promozione delle nostre città medie, vantaggiosa anche per il resto del paese, perché è soprattutto qui che è più facile sfruttare al meglio il capitale territoriale, la dimensione sostenibile e gli asset che conducono allo sviluppo (capitale cognitivo e identitario, reti fisiche e informatiche, capitale sociale, fiducia, ecc.). Una visione decisamente più moderna rispetto a quella tradizionale che vede nelle sole grandi città i veri motori di sviluppo, e una posizione che oggi trova il sostegno convinto di OCSE e Commissione Europea.
Roberto Camagni è Professore Emerito di Economia Urbana e Regionale del Politecnico di Milano in cui ha insegnato anche Valutazione delle trasformazioni urbane. È stato Presidente della European Regional Science Association e capo del Dipartimento Aree Urbane alla Presidenza del Consiglio dei Ministri durante il primo Governo Prodi. Ha realizzato ricerche per la Commissione Europea, l’OECD, Il Ministère de l’Equipement francese, il Dipartimento Politiche Comunitarie della Presidenza del Consiglio e numerose amministrazioni regionali in Italia e in Europa. Fra le sue numerose pubblicazioni troviamo: il manuale Principi di Economia Urbana e Territoriale (Carocci, Roma, 2011), tradotto in francese e spagnolo; Second-Rank Cities in Europe (Routledge, New York, 2016); Spatial Scenarios in a Global Perspective (Edward Elgar, Cheltenham, 2011); Economia e Pianificazione della Città Sostenibile (Il Mulino, Bologna, 1996); Milieux Innovateurs, Théorie et Politiques (Economica, Parigi, 2006). I suoi migliori contributi all’economia regionale e urbana sono raccolti in Seminal Studies in Regional and Urban Economics, a cura di R. Capello (Springer, Berlino, 2017).
Una parte di questo articolo è stata pubblicata su Economia Marche – Journal of Applied Economics, Vol. XXXVI, No. 2, 2017. Si sono aggiunti aggiornamenti e un paragrafo dedicato alla performance recente delle città medie.
Ruolo e futuro delle città medie: una riflessione teorica ed empirica
1. Città, cambiamento, sviluppo
Come ci hanno insegnato i grandi storici del secolo scorso, Fernand Braudel in testa, le città hanno da sempre caratterizzato intere epoche col successo della loro cultura, della loro economia e del loro potere. Esse hanno guidato lo sviluppo dei territori circostanti e dei paesi apportando leadership economica e strategica, la raffinatezza della loro cultura umanistica e artistica, la capacità amministrativa e organizzativa, l’efficienza delle infrastrutture di trasporto e comunicazione, la proiezione internazionale. Ad esse dobbiamo i concetti (e le pratiche) di libertà, democrazia, modernità, nonché, in ambito economico, i più rilevanti processi di innovazione grazie alla concentrazione di saperi e di capacità imprenditoriali.
Scrive Braudel (1982, p. 450): “Le città sono come dei trasformatori elettrici: esse aumentano le tensioni, precipitano gli scambi, rimescolano all’infinito la vita degli uomini”. Ma, soprattutto, “sono dei moltiplicatori capaci di adattarsi al cambiamento, di stimolarlo, di favorirlo. (. . . ) Sono ad un tempo dei motori e degli indicatori: esse provocano e segnalano il cambiamento” Braudel (1981, p. 35).
Proprio per questo ormai da vent’anni le città sono tornate al centro del dibattito internazionale e dell’agenda delle politiche di sviluppo, in Europa ma non solo. L’Unione Europea a partire dal 2000, ha introdotto un asse urbano nelle politiche di sviluppo regionale e i fondi strutturali, e ha appoggiato la predisposizione di agende urbane. Si vedano al proposito quelli che ritengo i documenti non solo culturali ma politici e di policy più interessanti: il Quadro d’azione per uno sviluppo urbano sostenibile del 1998, presentato dalla Commissione Europea dopo una larga intesa fra le diverse Direzioni Generali che intervengono con risorse anche sull’ambito urbano (solo la Direzione Generale Agricoltura si era negata, non a caso) e la Carta di Lipsia del 2007 del Consiglio Europeo, sotto presidenza tedesca. In entrambi i documenti si afferma che le città stanno alla base della competitività, dell’innovazione, della sostenibilità e, non meno importante, della democrazia: attraverso di loro il policy maker si avvicina al cittadino.
Ma di quali città stiamo parlando? Di tutte naturalmente, anche se i ruoli soprattutto fra grandi e grandissime città da una parte e medie e medio-piccole città dall’altra sono assai differenti. Purtroppo al momento due visioni abbastanza contrastanti si confrontano su questo tema nel dibattito internazionale: una visione che chiamerei tradizionale e mainstream, che vede solo nelle grandi città i motori della crescita, e una visione moderna che vi si oppone decisamente, a mio avviso per solide e del tutto condivisibili ragioni.
2. La visione tradizionale: priorità alle grandi città
La visione tradizionale, sia nell’interpretazione del ruolo delle città che nella individuazione delle migliori politiche di intervento, vede nelle sole grandi città i veri motori dello sviluppo, accettando, anche da un punto di vista politico, il fatto che lo sviluppo che ne consegue sia necessariamente squilibrato. E’ questo il punto di vista espresso esplicitamente dalla Banca Mondiale (World Bank, 2009), che si appoggia sull’esistenza di “economie di agglomerazione”, e cioè di vantaggi economici e di efficienza legati alla grande dimensione urbana. Ne consegue che le politiche di sviluppo, in particolare di supporto ai paesi emergenti, dovrebbero dirigersi al sostegno delle grandi e grandissime città, in primis le città capitali, dopo aver soltanto garantito una certa presenza di infrastrutture relativamente equilibrata sul territorio. I frutti di uno sviluppo anche squilibrato potrebbero essere in un secondo tempo riorientati a favore delle regioni arretrate e delle piccole città in un’ottica di pura redistribuzione ed equità sociale: comunque il tasso di crescita complessivo del paese resterebbe superiore a quello realizzabile con un investimento pubblico più omogeneo sul territorio.
Il supporto a questa posizione viene trovato, fra gli altri, nella posizione del Premio Nobel Paul Krugman (1991a e b), laddove egli parla “dell’influenza pervasiva della legge dei rendimenti crescenti”. Altri importanti studiosi di economia e geografia urbana chiamano in causa le stesse economie di agglomerazione come le forze che hanno creato le mega-city e le grandi city-region (Fujita e altri, 1999; Scott, 2001; Rosenthal e Strange, 2001; Glaeser, 2011; Glaeser e altri, 2021).
Su questo piano, l’evidenza empirica è effettivamente chiarissima. Le grandi aree metropolitane sono le più ricche aree dell’Unione Europea (Figura 1); fruiscono della migliore e maggiore accessibilità continentale (Figura 2); mostrano una produttività maggiore delle città più piccole. Come si vede in Figura 3, il contributo allo sviluppo complessivo dei paesi è decrescente passando dalle grandi alle piccole città (anche se, come si vedrà più avanti, è importante notare che non sono quasi mai le città capitali, con il massimo livello di primazia nei rispettivi sistemi urbani, a fornire il contributo maggiore).
Su quali elementi si appoggia la maggiore produttività ed efficienza delle grandi città? È facile rispondere:
- sulle economie di scala nella produzione di beni e soprattutto di servizio urbani,
- sulla selezione dei settori più avanzati, capaci di pagare le maggiori rendite urbane,
- sulla selezione delle funzioni superiori (direzionali, tecnologiche, di servizio),
- su processi cumulativi di domanda-offerta: fornitura di infrastrutture (che sono localizzate primariamente dove c’è maggiore domanda, e dunque nelle grandi città), di servizi pubblici avanzati (università, centri di ricerca).
Tutto ciò è ben noto e universalmente accettato: non vi è dubbio che le grandi città siano più ricche e generino redditi superiori delle città medie e piccole. Quello che non è accettabile e non è accettato è il passo logico successivo, e cioè l’aspettativa che le economie di agglomerazione conducano direttamente a un maggiore tasso di sviluppo delle città grandi, come affermato dalla World Bank, da Krugman e da Glaeser in particolare.
3. Una visione più moderna
In un lavoro recente (Camagni e altri, 2016) abbiamo individuato due scorciatoie logiche inaccettabili nel discorso tradizionale. Innanzitutto, si stabilisce un collegamento diretto fra economie di agglomerazione (un concetto statico) e crescita urbana. Ma la presenza di rendimenti crescenti di scala urbana indica solo una superiore efficienza e produttività delle città più grandi rispetto alle più piccole e non che un aumento della dimensione urbana implichi automaticamente una crescita di produttività.
Detto in modo più formalizzato, si confonde una derivata rispetto alla dimensione con una derivata rispetto al tempo! Se P è la produttività, t il tempo e Dim la dimensione urbana:
dP/dDim ≠ dP/dt (1)
Come ha messo in evidenza giustamente Henderson (2010), una relazione di equilibrio e una correlazione statica tra dimensione e performance sono interpretati erroneamente come una relazione causale e dinamica.
Figura 1: PIL pro-capite in parità di poteri d’acquisto, 2010 (EU=100)
In secondo luogo, è discutibile l’affermazione di Krugman (1991a) che le grandi città possono crescere più delle piccole perché la loro più alta produttività può generare maggiore attrattività su imprese e famiglie esterne. Rispondiamo che per parlare di attrattività si dovrebbero confrontare non i livelli assoluti di produttività – che si possono interpretare come benefici lordi della dimensione urbana – bensì i benefici netti, scontando dai primi i maggiori costi urbani che le grandi città presentano: costi immobiliari, rendite, costo della vita, tutti assai superiori nelle grandi città. I benefici netti, diversamente da quelli lordi, se comparati fra grandi e piccole città, si dimostrano assai più equilibrati e simili; pertanto, non è possibile a livello astratto attribuire alle grandi città necessariamente vantaggio netto e dunque una maggiore crescita rispetto alle città più piccole.
Figura 2: Il potenziale di accessibilità multimodale delle aree urbane (Nuts 3), 2011
La realtà empirica almeno europea ci dimostra come quanto detto sia vero: già in Figura 3 si è visto che non sono le città di rango uno quelle che forniscono il maggiore contributo alla crescita nazionale. Inoltre, se guardiamo allo sviluppo recente pre-crisi delle aree metropolitane in Europa vediamo, calcolando l’interpolante dei tassi di crescita di città a diversa dimensione, che sono piuttosto le piccole aree metropolitane a mostrare i tassi di crescita maggiore (Figura 4a).
Figura 3: Il contributo di città di diversa dimensione alla crescita dei paesi (tasso di crescita medio annuo del PIL, 2000-2007)
Fonte: Parkinson e altri, 2014
Solo durante la crisi sembra che vi sia un maggior equilibrio complessivo nei tassi di crescita (Figura 4b), ma negli anni successivi ritorna una maggiore dinamica delle metropoli medie e piccole (4c).
La visione moderna, che potremmo chiamare istituzionalista ed evolutiva, è orientata, diversamente da quella tradizionale, al sostegno di tutte le regioni e delle città di grande ma soprattutto di media dimensione. Questa è ad esempio la posizione molto influente e rispettata dell’OCSE di Parigi (OECD, 2006, 2009), nonché della Commissione Europea (European Commission, 2009).
Quali sono le più rilevanti giustificazioni per una tesi di questo genere?
- Innanzitutto, l’obiettivo di sfruttare al meglio il “capitale territoriale” esistente e naturalmente disperso (OECD, 2001). Per capitale territoriale si intende quell’insieme di risorse, fattori e asset – naturali e artificiali, di natura pubblica, privata o “comune”, materiali o immateriali, produttivi o umani, cognitivi, relazionali e sociali – che rappresentano e determinano il potenziale competitivo delle singole regioni e città (Camagni, 2009, 2017b). Esse sono presenti con qualità differenziata in tutti luoghi ove esiste una comunità umana, e quindi normalmente diffusi sul territorio;
- in secondo luogo, perché, da quanto indicato più sopra, molti altri elementi aldilà della pura dimensione urbana conducono allo sviluppo: assetti istituzionali, reti fisiche, informatiche e istituzionali, capitale sociale, fiducia (OECD, 2011);
- in terzo luogo, perché noi riteniamo che il tradizionale trade-off fra efficienza ed equità (o più modernamente fra competitività e coesione) non esiste o appare comunque sopravvalutato (Camagni e altri, 2015);
Figura 4a: Crescita del PIL delle aree metropolitane europee, 1995-2009
Figura 4b: Crescita del PIL delle aree metropolitane europee 2008-2011
Figura 4c: Crescita del PIL delle aree metropolitane europee 2011-2018
Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Eurostat
- in quarto luogo perché politiche adeguate come quelle basate sulla smart specialisation (Coffano e Foray, 2014; Capello e Kroll, 2016; Foray, 2016) e su una filosofia place-based (Barca, 2009) possono essere assai efficaci per tutti i territori; e agendo su tutti i territori è possibile massimizzare il tasso di sviluppo complessivo;
- in quinto luogo poiché critiche convincenti alla tesi tradizionale, che siano le grandi città i veri driver dello sviluppo, hanno mostrato come molto del vantaggio di queste ultime dipenda dall’operato di élite locali e ruling class che favoriscono naturalmente la localizzazione di servizi avanzati nelle grandi città, dove risiedono;
- infine, perché oltre alle economie di agglomerazione esistono anche le diseconomie di agglomerazione, che si manifestano al di là di una certa densità di sviluppo su aree locali, comunque limitate.
4. Alcuni elementi qualificanti e determinanti dello sviluppo territoriale
Avendo citato le economie ma anche le diseconomie di scala urbana, vale la pena approfondire l’argomento. Ogni sistema in cui si verificano processi di crescita in presenza di alcune risorse limitate – ad esempio quelle territoriali – è soggetto a processi naturali in cui si verificano dapprima rendimenti crescenti ma poi decrescenti (per effetto di scarsità). In Figura 5 si rappresenta questa condizione, identificando astrattamente città piccole, città medie e città grandi. Per ciascuna di esse i benefici urbani netti dell’aumento dimensionale, crescenti, si possono rappresentare con una curva logistica in cui, approssimandosi la città a una dimensione massima, essi divengono costanti o addirittura decrescenti.
Figura 5 – Dinamiche strutturali alternative: crescita, stabilità, declino
La continuazione dello sviluppo è purtuttavia possibile, ma a condizione che si superino alcune indivisibilità e alcune caratteristiche limitanti attraverso quella che in ecologia matematica si chiama una “dinamica strutturale”. Una piccola città, se cresce troppo, senza innovare ad esempio nelle funzioni ospitate o nelle tecnologie di mobilità interna, va incontro proprio alle diseconomie di cui di cui parlavo sopra; se invece riesce a trasformare alcune funzioni interne, a migliorarle o ad attrarne altre di migliore qualità dall’esterno, essa può continuare a crescere in quanto i maggiori benefici derivanti da queste innovazioni saranno in grado di controbilanciare i maggiori costi legati alla più grande dimensione urbana.
Il messaggio è dunque questo, assai importante: rendimenti crescenti si possono presentare per tutte le tipologie urbane, ma a partire da un certo momento, in presenza di costi di localizzazione urbana crescenti con la dimensione, è possibile continuare a crescere solo attraverso dinamiche “strutturali”, legate all’innovazione nelle funzioni e nelle strutture interne alla città.
Un secondo concetto geografico, molto interessante in un’ottica di crescita delle città medie e piccole per superare l’apparente contraddizione della loro minore efficienza, è il concetto di “borrowed size” (“dimensione presa in prestito”), presentata da Alonso (1973) e ripresa dalla scuola geografica di Delft più recentemente (Burger e altri, 2014). “Una piccola città o un’area metropolitana può mostrare alcune delle caratteristiche di una più grande si è collocata vicino ad altre concentrazioni di popolazione” (Alonso, 1973, pagina 200). Il concetto può essere esplicitato graficamente come in Figura 6 ove viene presentata la curva della produttività di una città isolata e contemporaneamente la curva, tratteggiata, di una città localizzata in un contesto metropolitano: si percepisce agevolmente che lo stesso livello di produttività può essere raggiunto dalla seconda città in corrispondenza di una dimensione urbana inferiore alla prima. Si comprende bene come questo concetto possa essere sfruttato strategicamente da città anche di piccola dimensione, integrate in (e non solo collocate all’interno di) sistemi metropolitani vasti ed efficienti.
Che cosa determina l’effetto di “borrowed size”? Innanzitutto l’elemento della dimensione dei mercati: la piccola o media città si avvantaggia dalla presenza di un mercato del lavoro più vasto e più diversificato in cui è inserita, e dalla presenza di un più vasto mercato di beni finali. In secondo luogo, un effetto funzionale (che possiamo chiamare di “borrowed function”): la piccola o media città si avvantaggia della più ampia accessibilità ai servizi e alle funzioni della città maggiore, nonché degli spillover di funzioni in uscita dalla stessa (alla ricerca di localizzazioni meno congestionate e meno care nella piccola città satellite.
Figura 6: Borrowed size: le piccole città “prendono a prestito” una maggiore dimensione
Esiste infine un terzo dispositivo che può avvantaggiare in termini di efficienza le città di minore dimensione: esso si basa sul concetto di “reti di città” (Camagni, 1993; Camagni e Capello, 2004): funzioni più elevate possono essere sviluppate nella città di minori dimensioni grazie a relazioni di cooperazione non gerarchica con città di simile dimensione, anche distanti. Attraverso la collocazione in una rete di cooperazione, la città può sviluppare funzioni di alta qualità, in genere tipiche di città maggiori, anche senza crescere di dimensione, a condizione di essere ben integrata in senso trasportistico e comunicativo con la città partner, per realizzare una massa critica di mercato maggiore. In questo senso si parla di “reti di sinergia”, allorché le città in rete svolgono funzioni simili; è questo il caso di città turistiche di dimensione limitata che si organizzano in itinerari ben integrati con altre città; è il caso delle città finanziarie integrate in grandi mercati globali. Si parla invece di “reti di complementarità” quando le città in rete svolgono attività diverse e si dividono il lavoro specializzandosi ciascuna su alcune particolari eccellenze.
5. Alcune verifiche empiriche delle ipotesi teoriche
Le ipotesi teoriche tratteggiate più sopra – sulla natura delle economie di agglomerazione, su altri elementi che possono influenzare la produttività e competitività urbana – devono essere sottoposte a una verifica empirica, come è richiesto dal metodo scientifico al fine di trovare continue corroborazioni. Questo è stato fatto in due successivi articoli (Camagni e altri, 2014, 2016), in un volume (Agnoletti e altri, 2014) e in un contributo complessivo recente che sintetizza i principali risultati emersi (Camagni e altri, 2021).
La prima analisi empirica, effettuata sulle aree metropolitane europee presentate da Eurostat, assume come variabile dipendente, come suggerito in precedenza, i benefici netti urbani (e non i benefici lordi come la produttività), misurati attraverso un indicatore che ci sembra molto valido, già utilizzato da altri autori: i valori immobiliari medi al metro quadro che effettivamente emergono da una disponibilità a pagare per localizzarsi nelle singole città e che si basano oltre che sui vantaggi anche sui costi urbani. Inoltre, sono state definite (arbitrariamente) tre classi dimensionali di aree metropolitane con limiti di 300.000 abitanti e 1 milione e mezzo di abitanti.
I risultati più interessanti sono quelli che da una parte confermano l’esistenza sia di economie che di diseconomie di scala urbana all’interno di ciascuna delle tre classi; d’altra parte, abbiamo risultati che indicano come i casi singoli di successo si riferiscano a città che sfuggono ai rendimenti decrescenti attraverso un forte upgrading delle funzioni ospitate (Camagni e altri, 2014).
Nel secondo contributo, che utilizza la stessa base dati aggiornata, non si distinguono più le tre classi dimensionali urbane ma si ricercano le determinanti dei benefici netti urbani complessivi, analizzati sia nel loro livello statico che nella loro dinamica fra il 2004 e il 2011. Anche in questo caso i risultati sono molto interessanti in quanto con sole due equazioni comprensive, una per interpretare il livello e una per la dinamica dei benefici netti, si effettua una verifica di teorie diverse variamente presentate da autori diversi in diversi momenti.
Per quanto riguarda il livello dei benefici netti, si conferma la rilevanza forte della dimensione urbana, come unanimemente accettato. Tuttavia, la dimensione non è l’unico elemento determinante: altri elementi statisticamente molto significativi sono rappresentati dalla presenza di funzioni economiche di alto livello (misurate dalla quota di occupazioni di alto livello sugli occupati totali); dalla qualità delle funzioni presenti nel contesto complessivo, un elemento che risulta particolarmente rilevante per le città maggiori (ma anche, come ipotizzato, per le città di dimensioni inferiori); dalla dimensione demografica del contesto urbano complessivo; dalla presenza di reti di cooperazione fra città sulla lunga distanza, misurate attraverso la cooperazione in programmi europei di ricerca applicata. Quest’ultimo elemento risulta particolarmente importante per le piccole città, quelle che, data la limitata dimensione, richiedono una maggiore massa critica di funzioni elevate come quelle di ricerca.
Particolarmente rilevanti per corroborare la nostra ipotesi principale, e cioè che la dimensione urbana non genera per ciò stesso sviluppo, sono i risultati sulla dinamica dei benefici netti urbani. Emerge in modo fortemente significativo che la crescita dei benefici netti non dipende in alcun modo dalla dimensione iniziale delle città, ma che tutti gli altri elementi già individuati posseggono una significatività ancora più elevata. Tale crescita dipende dunque dalla crescita delle funzioni di alto livello, specialmente per le città più piccole; dalla crescita delle stesse funzioni di alto livello nel sistema urbano complessivo; dalla crescita della dimensione demografica complessiva del sistema urbano, con effetti soprattutto sulle città più grandi; dalla presenza (ma non dalla crescita) delle reti di cooperazione fra città (Camagni e altri, 2016).
La stessa dispersione verticale delle metropoli europee visibile nei tre grafici di Fig. 4 (che indicano performance molto differenziate a parità di dimensione) mostra, al di là della generale migliore dinamica delle metropoli minori, il fatto che anche metropoli grandi possono avere dinamiche povere o addirittura negative.
6. Una indagine sulla performance recente delle città medie in Italia
A questo punto appare utile un approfondimento sugli anni più recenti, sulla trasformazione strutturale che li ha caratterizzati, con un focus sulle città italiane e in particolare sulla performance delle città medie.
Con gli anni 2000 il mondo è entrato in una nuova fase del paradigma tecno-economico dominante delle TIC, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione: una fase che chiamo della conoscenza, della cultura, della creatività e della digitalizzazione del complesso dei processi produttivi (“Economia 4.0”). Alla centralità ben nota della conoscenza si somma la rilevanza della cultura e della creatività, che unificano scienza e arte, aggiungendo qualità e meraviglia a funzionalità ed efficienza.
L’innovazione è centrale in queste trasformazioni, in un contesto di globalizzazione delle produzioni, del commercio e dell’informazione. Nuovi settori intermedi (sensori, robot, internet of things, piattaforme digitali, ..) e finali (pensiamo alla commercializzazione digitale, ai servizi di sharing economy, ai servizi culturali e di intrattenimento) sorgono incessantemente e impattano sui settori tradizionali e sulle modalità complessive di organizzazione del lavoro (Rullani e Rullani, 2018).
Soprattutto la quasi infinita possibilità di ricombinazione fra le diverse tecnologie e la replicabilità e trasferibilità della conoscenza hanno dato vita a nuovi mercati (delle tecnologie e dei beni e servizi), nuove forme di competizione economica, nuove strategie di impresa, nuove fonti di produttività e di profitto ma insieme anche nuovi rischi e nuove sfide per la società – le sue trasformazioni, le sue diseguaglianze, le sue discriminazioni – e in particolare per il lavoro (riduzioni occupazionali, polarizzazione delle mansioni e delle competenze, de-skilling e up-skilling). Nel mercato del lavoro ne fanno le spese le funzioni, sia manuali che intellettuali, passibili di automatizzazione, con grandi rischi per gran parte della classe media, mentre crescono in modo polarizzato da un lato le funzioni manuali di basso livello e dall’altra le funzioni intellettuali ad alta intensità di conoscenza e creatività (Capello e Lenzi, 2021).
La trasformazione è rapida e in qualche modo violenta, laddove l’incertezza personale e i costi sociali si manifestano prima dei vantaggi per chi riesce a rinnovarsi (Camagni 2020). Ne è una prova il passaggio dall’ottimismo al pessimismo di un autore come Richard Florida, che inizialmente poneva tutte le sue speranze di sviluppo nelle nuove classi creative e recentemente si è accorto del crescente dualismo sociale e soprattutto territoriale negli Stati Uniti (Florida, 2003 e 2017).
Le grandi città in particolare sembrano costituire i luoghi deputati a incubare le necessarie trasformazioni, in quanto naturalmente ospitano le funzioni e le competenze cruciali per gestire le trasformazioni stesse, e ciò potrebbe creare potenzialmente, almeno in questa fase, nuovi dualismi territoriali: fra grandi e piccole città, fra aree centrali e aree interne o periferiche.
Ciò che appare ben visibile è la profonda trasformazione delle produzioni (sempre più basata su nuove, digitalizzate e globali value chains), l’emergere di enormi profitti e sproporzionate retribuzioni per chi vince, ma anche l’abbassamento delle barriere all’entrata nei settori tradizionali e la forte competizione fra miriadi di nuove imprese emergenti. Su quest’ultima tipologia di processi si basano le potenzialità di successo di nuovi territori e di città di media e piccola dimensione.
Come si sono comportate le città metropolitane italiane, istituzionalmente costituite di recente proprio per affrontare meglio queste sfide, e le città medie e piccole?
E’ bene dire subito che la sfida della trasformazione e della modernizzazione è stata raccolta solo da pochi territori, e che il paese è restato praticamente fermo almeno fino al 2014. Utilizzando dati di Valore Aggiunto 2000-2019 a prezzi correnti [1] a livello Nuts3 e cioè provinciale, ci accorgiamo che le Città Metropolitane che avrebbero dovuto guidare la nuova fase dello sviluppo si sono per la maggior parte addormentate; le città d’arte si sono rifugiate nella loro vocazione storica e quando va bene hanno galleggiato.
La trasformazione è guidata e realizzata praticamente solo da due Città Metropolitane, che si sviluppano più della media italiana, con crescente specializzazione nei nuovi settori di terziario moderno (informazione e comunicazione, finanza e assicurazioni, attività professionali scientifiche e tecniche, attività artistiche e di intrattenimento): Milano, con un aumento rilevantissimo della sua quota di valore aggiunto sul totale italiano (+17%) e Bologna (+6%). Seguono con incrementi inferiori Roma (+1,8%) e Cagliari (con un interessante 3,5%). Torino e Genova arretrano e così tutte le città metropolitane del sud (con la bella eccezione di Cagliari). Si è creato un nuovo dualismo territoriale, che si aggiunge a quello tradizionale Nord-Sud (Camagni, 2020).
Se guardiamo il sottoperiodo più recente, a partire dall’uscita dalla crisi del 2008, e cioè il periodo 2013-2019, i risultati migliorano leggermente, anche se non cambia l’ordine di performance delle migliori (Milano, Bologna e la sorprendente Cagliari). Tuttavia emergono in positivo rispetto all’Italia Genova, Firenze, Torino e Venezia, in ordine decrescente. In compenso va in negativo Roma, che si unisce alle metropoli del sud in crisi.
Tutte le città del Centro-Nord mostrano specificità chiare nel tessuto produttivo. Abbiamo città sempre più specializzate nei (o in alcuni dei) nuovi settori terziari già citati che caratterizzano l’attuale fase di sviluppo (oltre a Milano e Bologna, Torino e Roma); altre, come le città d’arte, fanno maggiore riferimento alla filiera turistica e immobiliare (Venezia, Genova) aggiungendovi il settore artistico e di intrattenimento (Firenze, Roma, Cagliari). Importante il successo di alcuni settori specifici, come il manifatturiero a Bologna e l’ICT a Roma e Cagliari. Al sud le città metropolitane non operano che scarsamente nei settori nuovi e condividono una crisi strutturale con la grande maggioranza delle città meridionali medie e piccole (33 città su 38 perdono quota rispetto alla media italiana).
Il fatto che una sola grande città italiana, Milano, abbia performato bene avviando una forte trasformazione verso servizi moderni, seguita da una media città come Bologna, è una peculiarità italiana, che ci fa dubitare sulla complessiva capacità del paese di rispondere alle nuove sfide globali. Tuttavia il fatto che le grandi città siano avvantaggiate dalle nuove caratteristiche del paradigma tecnologico emergente è confermato dalla performance delle grandi città europee: nel periodo 2001-2017 le 20 su 26 grandi città europee hanno visto aumentare la loro quota sul totale del PIL dell’Unione (le restanti avendo realizzato forti guadagni nel decennio precedente) (Camagni, 2020).
Tornando all’Italia, si manifesta comunque assai interessante la dinamica delle città non metropolitane di media dimensione, fra le quali molte svettano ai livelli delle città maggiori. Le riportiamo nella seguente Tabella 1 (in ordine di performance relativa, dalla prima alla venticinquesima), nei due periodi 2000-2019 e 2013-2019. Si nota che:
- Si tratta in larghissima prevalenza di città del Centro-Nord; solo due città del Sud sono presenti in ciascuna classifica.
- I cambiamenti nella classifica sono numerosi e interessanti, un segno della maggiore flessibilità e della minore resilienza dei tessuti produttivi rispetto alle grandi. Nel passaggio al periodo più recente infatti: 10 città escono dalla classifica delle migliori 25 medie città e 7 vanno indietro pur restando fra le prime 25; 6 guadagnano posizioni e due restano nella medesima posizione. Per contro, entrano nella seconda classifica più recente ma non erano presenti in precedenza 10 città (Prato, Novara Treviso, Mantova, Oristano, Macerata, Belluno, Brescia, Barletta-Andria-Trani e Ascoli Piceno).
- Nel gruppo di queste ultime stanno città con buone specificità produttive sulle quali è basato il loro successo, spesso nel settore industriale (il dato finale è sempre il 2017). In senso inverso, fra le città uscite dalla classifica troviamo città che non hanno innovato a sufficienza nelle loro specificità (Grosseto e Lucca nel turismo) o con un terziario poco solido (Trento, Catanzaro e Sassari) o con problemi nel settore industriale o nelle filiere agricole non bilanciati da altri settori (Cuneo, Ravenna, Monza-Brianza e Livorno).
- Infine, erano presenti nella prima classifica e più recentemente hanno migliorato la loro performance 6 città con una solida struttura produttiva: Trieste, Modena, Reggio Emilia, Padova, Vicenza, Ancona; mantengono poi le loro posizioni di forza Verona e Pesaro con Urbino.
- Le regioni con una vocazione industriale dinamica si riducono in pratica a tre: Veneto, Emilia-Romagna e Marche, più singole province localizzate in Lombardia e Toscana.
Tabella 1 – Variazione % della quota provinciale sul totale Italia in Valore Aggiunto
Città (dato provinciale) | 2000-2019 | Città (dato provinciale) | 2013-2019 |
Rimini | +25,26 | Modena | +7,40 |
Bolzano | +21,98 | Trieste | +6,83 |
Grosseto | +14,08 | Prato | +6,46 |
Ravenna | +11,82 | Reggio Emilia | +5,43 |
Trieste | +9,47 | Novara | +4,36 |
Parma | +9,20 | Bolzano | +4,24 |
Massa-Carrara | +9,07 | Treviso | +3,98 |
Verona | +9,02 | Verona | +3,65 |
Modena | +8,37 | Mantova | +3,61 |
Lucca | +7,97 | Padova | +3,05 |
Monza e Brianza | +7,80 | Oristano | +2,85 |
Forlì – Cesena | +7,78 | Parma | +2,80 |
Catanzaro | +7,72 | Macerata | +2,75 |
Pistoia | +7,07 | Belluno | +2,66 |
Reggio Emilia | +6,47 | Vicenza | +2,66 |
Cuneo | +6,23 | Brescia | +2,57 |
Pesaro e Urbino | +5,87 | Pesaro e Urbino | +2,39 |
Padova | +5,78 | Forlì – Cesena | +2,05 |
Vicenza | +4,56 | Rimini | +1,97 |
L’Aquila | +4,15 | Ancona | +1,88 |
Ancona | +4,14 | Pistoia | +1,67 |
Pisa | +4,02 | Barletta Andria Trani | +1,59 |
Trento | +4,00 | Ascoli Piceno | +1,46 |
Sassari | +3,88 | Massa-Carrara | +1,39 |
Livorno | +2,73 | Pisa | +1,34 |
7. Implicazioni per le strategie e le politiche pubbliche
Le conclusioni che discendono dalle analisi qui presentate possono essere sintetizzate nei punti seguenti.
1. Nonostante il fatto abbastanza chiaro che il nuovo paradigma tecnologico (che chiamo della conoscenza, della cultura, della creatività e della digitalizzazione) avvantaggi in particolare le città più grandi e internazionalizzate, per le città di media e medio-piccola dimensione le modalità per aumentare la loro efficienza e attrattività (produttività netta) sono numerose, sufficientemente indipendenti dalla dimensione urbana.
2. Emerge in modo chiarissimo l’importanza della qualità delle funzioni ospitate e della loro crescita (che abbiamo chiamato “dinamica strutturale”) nonché delle reti di cooperazione con altre città alla scala vasta.
3. Soprattutto in un periodo di scarsità di risorse pubbliche, i policy maker dovrebbero concentrare le risorse disponibili sulle città più capaci di realizzare una strategia di crescita basata sull’innovazione, sul rinnovamento e la modernizzazione delle funzioni presenti, nonché sulla cooperazione e l’integrazione con altre città anche localizzate al di fuori del sistema urbano locale.
4. Le medie e piccole città (ma anche le grandi) devono vincere oggi la duplice sfida posta dal nuovo paradigma tecnologico emergente: devono da una parte sviluppare nuove funzioni, generare nuova istruzione, favorire ricerca e cultura ma anche, d’altra parte, generare inclusione, coesione, solidarietà. Il nuovo paradigma infatti restringe la base produttiva di punta ai ceti sociali più dotati di cultura, competenze, conoscenze e creatività mentre relega in funzioni di puro servizio la maggior parte dei ceti a più bassa cultura ed anche quelle che chiamiamo le classi medie, che svolgono attività intellettuali potenzialmente automatizzabili, soggette pertanto a forte rischio di disoccupazione (Camagni, 2017a).
5. Il ruolo dell’intero sistema urbano-metropolitano regionale, appare sommamente importante sia per l’efficienza che per la dinamica delle città di ogni dimensione. L’accessibilità a un contesto avanzato di funzioni metropolitane è cruciale soprattutto per le città più piccole, mentre la dimensione metropolitana complessiva avvantaggia sia le piccole che le grandi città.
6. Agendo sulle caratteristiche del contesto urbano di area vasta – e cioè sull’integrazione del potenziale demografico attraverso opportuni sistemi di trasporto e comunicazione, sul costante aumento della qualità delle funzioni ospitate e sulle reti di cooperazione interna – è possibile raggiungere importanti risultati sulle performance complessive, anche senza aumentare la dimensione dei singoli centri urbani. Cruciale in questo senso appare l’accessibilità interna all’area metropolitana vasta, che crea un vero mercato metropolitano sia per i servizi e le funzioni superiori, sia per i beni e sia per il lavoro.
7. In conseguenza di tutto quanto precede, scommettere non solo sulle grandi e grandissime città ma anche sulle città di secondo e terzo ordine è vantaggioso per lo sviluppo dell’intera economia nazionale. Infatti ciò consente:
- di ridurre le tendenze inflazionistiche di uno sviluppo troppo concentrato territorialmente, che hanno un impatto negativo sulla competitività complessiva;
- di sfruttare più a fondo il capitale territoriale necessariamente disperso che è presente nel sistema urbano complessivo, nonché le specifiche eccellenze delle singole città.
Una recente ricerca realizzata al Politecnico di Milano dal nostro gruppo di economisti territoriali per l’Unione Europea con un modello econometrico di previsione (“quantitative foresight”) (Camagni e altri, 2014) ha mostrato che una strategia di supporto alle medie città europee sarebbe, in una prospettiva di 15 anni, la strategia allo stesso tempo più coesiva e più efficace per lo sviluppo economico complessivo.
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[1] I dati a valori correnti forniscono a mio avviso la giusta misura di quanto un territorio produce e guadagna, in quanto assommano le variazioni delle quantità prodotte e vendute di beni e servizi alle variazioni dei prezzi ai quali si vende (che dipendono dalla qualità dei prodotti e dal potere di mercato di imprese e territori). Calcolando poi l’evoluzione delle quote delle città (le province) sul paese nel suo complesso è possibile superare il problema dell’inflazione e dei cicli di crisi globale.